LA SUCCESSIONE: EREDI O TARLI

LA SUCCESSIONE: EREDI O TARLI

La successione in azienda: evitiamo i tarli

di Luca Scarabelli
(5 sani minuti per riflettere)

 

LA SEGRETARIA TRANQUILLA

Grande azienda quotata in borsa, con l’imprenditore fondatore ancora al comando. Prodotti innovativi accompagnati sul mercato da un modello d’affari emozionale ma a tratti efficace.

La dipendente più invidiata era la segretaria del primogenito dell’imprenditore: ufficio grande e luminoso, ritmi di lavoro comodi, poco o nulla da fare perché il suo capo poco o nulla faceva, salvo giocherellare con il computer e dare qualche pennellata qua e là al marketing dell’azienda.

 

UN TARLO NEI MOBILI DI CASA

Quante volte vi è capitato di incontrare realtà analoghe? A me diverse volte.

Un imprenditore che ha tirato dritta una azienda, magari profittevole e di successo, ha tutto il diritto di garantire un futuro sereno alla sua progenie; ma perché farlo a danno dell’impresa stessa?

Eh già, perché in azienda un discendente pantofoliero e poco professionale trasferisce messaggi negativi al resto della organizzazione: il danno non è tanto lo stipendio non produttivo o l’elegante auto garantita al giovinotto o giovinotta di turno. Il vero danno sono alibi per i dipendenti meno capaci e insicurezza sul futuro per quelli più capaci ma anche più appetiti dal mercato del lavoro.

 

In definitiva, un silenzioso tarlo che comodamente accoccolato rosicchia dall’interno la struttura.

 

Attenzione: non tutte le generazioni successive sono così.

 

NON C’E’ NULLA DI ASSIOMATICO

Nella stessa azienda dell’esempio iniziale, la stessa impiegata cominciò a lavorare duramente quando in azienda arrivò il secondo figlio: un furetto, che passava, in barba al jet lag, da un aereo dalla Cina ad una visita a clienti, da riunioni di prodotto a sessioni di budget di controllo, e così via. Ed anche con buon successo.

 

Ma questo ragazzo aveva voluto, prima di entrare in azienda, lavorare come impiegato in una azienda del gruppo usando il cognome della madre per non farsi riconoscere; stessa cosa fatta, ad esempio, anche dal compianto Giovannino Agnelli, divenuto poi manager dalle qualità riconosciute. Possiamo immaginare che questi due volessero proprio fare gli imprenditori.

 

Ho altri modelli simili: azienda nel mondo moda, il figlio entrato contro il volere del padre ha cominciato come venditore lavorando duramente, senza paura di orari o errori e ha conquistato la fiducia prima dei clienti e poi anche del padre, diventando il leader di successo della azienda e portandola ad aumentare clienti e profitti.

 

Stessa cosa ha fatto anche un altro giovinotto che conosco: azienda di automazione attraversava un periodo gramo e stava per essere mollata dal con-socio (45%) del padre; il figlio si è indebitato personalmente per comprarsi quella quota e poi ha preso la valigetta e sul mercato ha ricostruito l’azienda che, nonostante pandemie e guerre, cresce a due cifre, è stata ricapitalizzata ed è diventata fornitore di grandi Multinazionali.

 

Non è quindi questione di generazione ma di percorso. Chi si suda la salita si dà da fare, rischia e, molto spesso, ha successo, mentre chi trova la tavola apparecchiata spiluzzica e cazzeggia.

 

Nulla di assiomatico, appunto, ma le mie osservazioni tendono ad avere questi punti in comune.

 

RIGORE O ACCONDISCENDENZA

C’è un adagio che recita: “se vuoi bene a tuo figlio devi fargli provare fame, sete e freddo”.

Personalmente penso sia sempre più produttiva la condivisione, senza bisogno di arrivare ad estremi come quelli della saggezza popolare, quindi il primo passo è il dialogo: chiedere al proprio figlio cosa vuol fare di suo. A volte noi genitori tendiamo a proiettare sogni ed aspettative e i nostri figli finiscono per trovarsi invischiati in un percorso pre-tracciato da noi che loro sposano perché appare più comodo.

 

Si narra che una ricca famiglia imprenditoriale desse al pargolo dissoluto un corposo appannaggio mensile (8 zeri in Lire) purché non si presentasse mai in azienda. Il giovinotto, dopo qualche anno di notti brave nei locali alla moda di mezzo mondo, ne fondò uno suo di grande successo e profitto anche quando lo rivendette. Poi ne aprì un altro, sempre di successo. Magari nel suo DNA qualche gene imprenditoriale c’era finito ma non per l’azienda metalmeccanica di famiglia.

 

Forse si erano confrontati, genitori con figlio, ed avevano scelto la strada del rigore: “stai lontano dall’azienda”.

 

Altri preferiscono l’accondiscendenza: fanno entrare il figlio in azienda con la speranza possa sviluppare doti e sensibilità imprenditoriali, suppongo per osmosi; nel frattempo si mostrano accondiscendenti al suo giocherellare, godendo di qualche pennellata che il giovane virgulto dà qua e là, spesso nel marketing.

 

CREATIVITA’ ED IMPEGNO

L’azienda è un organismo vivente che si muove in un ambiente mutevole, fatto di altri organismi viventi spesso aggressivi: concorrenti e clienti non sono disposti ad aspettare i tempi di crescita dell’erede di famiglia, anzi non vedono l’ora di poter cogliere distrazioni o debolezze nella strategia di una azienda, magari in posizione di leadership, per accaparrarsi spazi economici e di mercato.

 

In azienda serve quindi molta creatività per immaginare il futuro: nuovi prodotti e soluzioni e strategie distintive, ma anche molto impegno sul risultato, rispetto delle regole comuni a tutti i dipendenti e, possibilmente, celerità decisionale sostenuta da analisi anziché solo dal naso o dall’estro del giovane virgulto.

 

Non è obbligatorio considerare i figli come propri successori: indubbiamente sono eredi, salvo diseredamenti per altri motivi, ma l’azienda merita tutela e magari la merita anche l’erede stesso che potrebbe avere sue aspirazioni o inclinazioni rinunciando alle quali sarebbe frustrato e non farebbe certo un buon servizio a sé e alla azienda che invece potrebbe prosperare con un buon management o essere ceduta ad un altro imprenditore, per perpetuarne cultura, valori della marca e, perché no, posti di lavoro.